Li univa la ricerca sul puer, la passione per la trasformazione della polis, il piacere della pars construens. L’amore per il bambino in carne ed ossa, l’attenzione per la parte incompiuta che dimora internamente nell’adulto, la passione per la progettualità creativa, la tenacia nella ricerca e la gioia nella scoperta rappresentano il punto di convergenza tra Luigi (Gino) Pagliarani e Francesco (Franco) Berto. Lo testimonia il carteggio “Carissimo Francesco Berto. Carissimo Gino Pagliarani" e l’articolo di Berto “Memoria di un incontro, due puer si parlano” pubblicato in Educazione sentimentali e le parole scritte dalla psicoterapeuta e psicosocioanalista Aurelia Galletti: «Pagliarani ci parlò di lui e di Paola tantissimi anni fa. Aveva fatto l’introduzione a Parola di bambino e diceva di aver trovato una persona davvero capace di mettersi in ascolto del puer. Con lui condivideva tante cose».
"Ciò che diverrà e ancora non è siamo sempre pronti a sostenerio. Fuori da ogni convenzione, stereotipia e pregiudizio " è il pensiero convergente che li ha sempre lega ti intellettualmente e amichevolmente. Condividevano inoltre una particolare attenzione a come una coppia generasse un figlio e si trovasse quindi a determinare i problemi che conseguono all’essere allevati e al venir educati (Berto e Scalari, 2011).
Pagliarani in li bambino trasparente (FrancoAngeli, 1994), scrive:
«Berto rende visibile il pensiero dei bambini [...] momenti profondi, nel doppio senso indimenticabili e sepolti [...] Una frase bellissima nella sua semplicità conclude il libro di Berto e Scalari) 1994): “La Ricerca diventa uno stile di vita” [...] questa frase mi ha portato a pensare all’obiettivo, al traguardo, allo scopo di qualsiasi trattamento psicoterapeutico che consiste appunto nel cambiare stile di vita. Da uno stile sbagliato, contrat to a uno stile sano, espanso. Dalla viltà al coraggio. Dall’assenza di prospettiva alla progettualità [...] Che è poi quello che Berto fa senza saggiamente intervenire in termini psicoanalitici».
Berto ha dedicato tutta la sua vita professionale all’indagine della mente di chi era in evoluzione. Per lungo tempo la sua attenzione si è diretta sull’infanzia e, solo successivamente, è transitata ad indagare la parte che nell’adulto deve evolvere per poter divenire genitrice ed infine è approdata nella formazione dell’operatore che esercita un mestiere relazionale. Lo sviluppo del suo pensiero teorico e metodologico, secondo il principio del puer. è stato via via sedimentato nei suoi numerosi libri poiché egli stesso diceva: «La scrittura mi serve per mettere ordine nei miei pensieri e nelle mie idee. Mi è necessaria per ancorarmi a dei punti cardine e da lì, grazie anche ai lettori, ricomin ciare l’esplorazione della mente umana». I suoi testi quindi mettono a fuoco come far emergere, crescere e sviluppare la parte infantile sia nei piccoli che nei grandi. Questa dimensione immatura, presente in modo naturale nel bambino e in modo problematico nell’adulto, è stata dunque l’oggetto della sua indagine psicosocioeducativa. Formare per Berto significava liberare i suoi allievi da modelli pre-pensati e ripetitivi. Era infatti promuovere in chi incontrava la capacità di formulare pensieri liberi, autonomi, personali. Mai scontati.
Un intento generativo perché generoso e mai assertivo. Un proporsi germinativo per accompagnare dentro ai misteri dell’animo umano perché ancorato all’idea che la cono scenza è sempre insatura. Un dissertare profondo e leggero perché chi lo studiava non dovesse sforzarsi per comprenderlo.
La narratologia è stata il suo punto di partenza. Un narrarsi per narrare e far narrare. Nella trama dei suoi scritti traspare continuamente il piacere di costruire storie di senso a partire dai frammenti del discorrere e dell’operare quotidiano.
Nel suo mondo interno analisi del transfert e del controtransfert nel campo condivi so erano una naturale propensione a immergersi nelle situazioni esplorandole con pasione e sapienza per poi uscirvi, con altrettanta naturalezza e facilità, per dare parola a ciò che aveva incontrato. L’apprendimento - fondato sul modello psicosocioanalitico - fu il perno del suo ricercare, lavorare e diffondere pensieri. L’emersione dell’inconscio, inteso come il mondo segreto che alberga in ognuno, fonda la sua base metodologica. Il gruppo operativo divenne la concezione teorica e tecnica a cui appoggiarsi nel lavoro scolastico, nella consulenza alle famiglie e nella formazione professionalizzante (Berto e Scalari, 2013b).
Con i bambini si metteva al loro livello emotivo per poi riposizionarsi, quasi con temporaneamente, nel ruolo di adulto che, dissimmetricamente, insegna a chi è più pic cino.
Sostiene Maria Marchegiani, insegnante: «Da lui ho imparato a guardare i miei alunni con occhi più attenti, i suoi insegnamenti mi hanno fatto crescere professional mente e personalmente».
Verso i genitori provava un’empatia profonda per le loro difficoltà. Combatteva chiunque li sviliva. Contrastava chi denigrava mamme e papà. Si opponeva a chi morti ficava i loro modelli educativi. Quando li incontrava la domanda che lo orientava era: Perché questo uomo e questa donna si comportano in questo modo? Dialogando riu sciva a trovare via via la loro parte di risorsa per aiutarli ad avere maggior fiducia in se stessi (Berto c Scalari, 2008).
Scrive Maria Elena Petrilli, psicoanalista: «Vorrei tu sapessi che ho molto apprez zato il suo lavoro con i genitori. Ancora oggi ho una paziente che parla di lui in modo speciale».
Si divertiva ad accompagnare gli operatori dentro a modi di agire innovativi inci tandoli a motivarsi con il piacere di poter esplorare e applicare metodologie e tecniche trasgressive e creative.
Monica Cipolato, educatrice, afferma: «Un maestro unico, una persona significativa per tanti, grata per averti incontrato nella mia strada professionale e personale».
Credeva nella possibilità umana di cambiare, evolvere, trasformarsi attraverso 1’apprendere. Apprendere significava per lui, a partire dalle sue conoscenze dei teorici dell’educazione come Ivan Illich, Paulo Freire e Celestine Freinet, arricchita dalla psi cologia sociale analitica, così come era stata inizialmente formulata da Enrique Pichon- Riviere e Josè Bleger, coniugare mente e anima, ragionamento e vissuto, saperi e stati d’animo, aneliti verso la libertà e disciplina intellettuale. Punto fondamentale del suo pensiero educativo e formativo è che tra docente e discente deve esserci quella recipro cità che permette ad entrambi di imparare. «Non c’è insegnamento se non c’è appren dimento e, se non si impara sempre dalle proprie esperienze, si muore», soleva dire a chi gli chiedeva cosa lo motivasse a continuare a lavorare in età avanzata.
Un suo alunno in Parola di bambino, il mondo visto coni suoi occhi scrive: «Mori re vuol dire diventare una persona che rimane sempre uguale, cioè morta».
Ed è nella sapiente tessitura degli aspetti evolutivi che si colloca la grandezza del suo lavoro con grandi e piccini. «Tutto sta nella relazione» ribadiva quando gli si chie deva come lavorare con un bambino, una classe, una famiglia, un’équipe. Il suo ap proccio relazionale gli era connaturato e si era andato formando con la sua stessa vita. La rielaborazione concettuale l’ha potuta sistematizzare invece grazie al progetto Età Evolutiva che prima stilò e poi realizzò nella città di Venezia. Un progetto per contra stare il disagio nei minori d’età dove i dati processuali e statistici divennero, giorno dopo giorno, un’impareggiabile possibilità di ricerca sul campo. I Centri Età Evolutiva, infatti, coinvolgevano in Laboratori Creativi - di sua ideazione - bambini e adolescen ti; aiutavano i genitori attraverso la consulenza educativa, che andò sperimentando e mettendo a punto negli anni novanta; coinvolgevano la comunità educante a cui parlava soprattutto attraverso metafore e storie che emergevano dalla rilettura delle osservazio ni che aveva raccolto ascoltando grandi e piccoli prima direttamente e, successivamente, in supervisioni offerte ai colleghi più giovani
Erano parte fondamentale della sua idea di apprendimento come cambiamento, il poter imparare perché se ne sente l’urgenza, lo studiare perché si avverte la mancanza di conoscenza, il faticare perché solo dalle imprese impegnative deriva il piacere, l’amare quel che si fa perché solo questo calma la paura di non riuscire. Se gli chiedevi Ma come fai?, la sua risposta, semplice quanto gigantesca, era: «Io non lo so, sono loro che me lo dicono».
Berto infatti sapeva ascoltare. Di questo chi l’ha conosciuto è certo. Nella memoria di tutti coloro che hanno potuto godere della sua attenzione è infatti impresso quel mo mento in cui, dopo aver fatto silenzio, Francesco diceva qualcosa che non potevi più dimenticare. Curioso dell’animo umano buttava lì frasi incompiute, massime insature e aneddoti provocanti per dar spazio al raccontarsi dell’altro. Sapeva ascoltare perché era capace di stare in disparte, pazientemente. Riusciva ad ascoltare perché gli era naturale mantenere desta la curiosità, riflessivamente. Voleva ascoltare perché chiunque lo in contrasse facesse esperienza di un essere umano che lo scrutava al di là del visibile, amorevolmente.
Dice Domenico Canciani, già presidente Movimento Cooperazione Educativa: «Si è spento in silenzio com’era da lui. Era un modo per dirti parla, ti ascolto; una forma speciale di accoglienza dell’altro, dei suoi dubbi, pensieri, ansie ed emozioni. Non ti sentivi mai giudicato. Le sue parole erano per te, per aiutarti, maieuticamente, a cono scere te stesso. Lavorava così anche in classe. La chiamava Ricerca. Un metodo per aiutare i bambini ad esprimersi, a raccontare, a scrivere paure e desideri. Le figure del loro mondo interno».
Uno sguardo interiore “ecografico” che Berto ha messo a disposizione dei suoi alunni, ma anche dei tanti genitori incontrati nella consulenza educativa e infine appli cato nella selezione del personale e nella formazione degli operatori in tutta Italia e nel la Svizzera italiana dove si recava per lavorare con Ferruccio Marcoli presentatogli proprio da Pagliarani.
Daniele Malus, psicosocioanalista, afferma: «Francesco, vera guida nel “conosci te stesso”. Ricordo queste sue parole. Delicate e potenti, lette qualche anno fa: “Ho visto negli occhi dei miei alunni la gioia di capire”».
Il suo segreto professionale era credere fermamente che mai nulla di quello che le persone esprimono va scartato, sottovalutato, respinto. Anzi. Più non capisci un’affermazione più dentro questa sono condensate emozioni e idee da dirimere, svi luppare e sciogliere in racconti per trovare strade alternative che avvicinino alla tra sformazione del non noto in noto. La ricerca della verità, del punto O - e fu una scoper ta tardiva -, era stata legittimata dal pensiero bioniano. Soltanto quando Berto incontrò altri professionisti capaci di cercare il senso delle affermazioni di questo psicoanalista potè riconoscerne la potenzialità. A Berto piaceva fare domande. Spesso quesiti diver genti dal tema. Interrogativi a latere. Dubbi fuori luogo. Qualcuno si spiazzava. Diso rientare era il suo modo per promuovere pensieri inediti. Non sempre veniva apprezza to. Troppo lontano dall’usuale. Alcuni con cui conversava invece le sentivano stimo lanti e davano valore al suo interloquire per salti illogici. Ricordo lo psicoanalista, già presidente International Psychoanalytical Association, Stefano Bolognini che, in una serata autunnale, dopo aver presentato uno dei nostri libri, stette fino a notte inoltrata a parlare con noi affascinato dagli scenari che Francesco gli proponeva. Non posso di menticare le dispute conflittuali, quanto passionali, con Armando Bauleo, psichiatra, psicoanalista e psicologo sociale, che lo spronava a procedere nella sua ricerca disinte ressandosi dei detrattori. Rievoco le chiacchierate con Paola Milani, docente universita ria di scienze dell’educazione, che in lui vedeva chi realizzava il suo pensiero pedago gico. I professionisti che erano abituati e appassionati alla ricerca dell’animo umano, quindi, avvertivano i suoi interrogativi come piste stimolanti per cercare altrove, fuori campo, oltre il prevedibile. Questo suo procedere mentale per digressioni ha però, sep pur a malincuore, significato per lui fare i conti con l’incomprensione. Ma è un prezzo che Berto ha pagato con orgoglio poiché - mai - lo avrebbe barattato con le luci della ribalta che chiedevano omologazione supina all’attesa stereotipata, popolare, mediatica. Qualche volta doveva ripararsi perché i colleghi che non potevano sopportare di non sapere già non riuscivano a stare al passo del suo inusuale modo di procedere nel pen siero. Un produrre idee fondato sul dare luce a quello che rimaneva in ombra piuttosto che sul puntare i riflettori su quanto era visibile, lapalissiano, chiaro.
Scrive Silvia Vegetti Finzi, psicoanalista e scrittrice: «Abbiamo perso una persona unica, insostituibile, indimenticabile».
Questo amore per le libere associazioni, questa passione per andare ad illuminare zone buie della mente, questa necessità di esplorare l’ignoto lo esponevano a sforzi emotivi così duri che talvolta aveva bisogno di ritirarsi in silenzio. Qualche volta dietro di me, qualche altra volta nella sua criptica solitudine, sempre nella sua passione per la scrittura. Forse carta e penna sono state le uniche vere alleate del suo pensare fuori del le righe del conosciuto. La scrittura, a cui ha dedicato ore ed ore del suo tempo, è stata la sua continua analisi personale, la sua compagna intellettuale, la sua depositaria di sentimenti indicibili, lo l’ho potuta condividere non solo perché di me si fidava, ma an che perché gli piaceva facessi da ponte tra questo suo dialogo interiore e il mondo esterno rendendo pubblico ciò che andava sognando. Scriveva infatti per se stesso; il suo era un narrare onirico; qualche volta contro qualcuno o meglio contro parti di sé che gli bloccavano il pensiero, più che per qualcuno. Spesso poi gettava nel cestino pa gine e pagine riempite con la sua piccola Olivetti che rompeva il silenzio della notte con il suo incessante ticchettio. Oppure me le offriva porgendomi fragili veline che, nel tempo, me lo hanno fatto amare, conoscere ed apprezzare. Il computer mi permise, anni dopo, di salvarle e così cominciai ad archiviarle, proporle, renderle patrimonio consultabile a tutti.
La sua mente, alle volte, chiedeva riposo per non esplodere. Il suo corpo, forse, ha pagato tale ipersensibilità con la malattia. Quel parkinson che mai nascose. La sua fragile salute, infatti, non lo fece arretrare dal contatto con il suo pubblico fino al luglio 2016 quando, in una verdeggiante villa sul Lago di Garda, contornato amorevolmente da tanti colleghi provenienti da varie città italiane, molti dei quali soci dell’Associazione Ariele Psicoterapia e voluto lì dal nostro editore Elvira Zaccagnino, tenne la sua ultima conferenza. Lo sforzo non era tanto quello di parlare, di riportare gli esiti della sua ricerca con i bambini, di confrontarsi sui suoi vissuti quanto quello di mantenere attivo l’ascolto dell’altro. Per dargli la giusta attenzione.
Dice Giuseppe Maiolo, psicoanalista da cui eravamo ospiti: «Rimane il suo dolce e umanissimo sguardo sul mondo e la grande attenzione agli altri, dai bambini ai grandi, che ho sempre trovato nei suoi occhi».
Berto credeva nella bellezza della follia che porta a rinnovare l’amore per ciò che non è conosciuto. Sosteneva che non ci sono affermazioni fuori luogo. Per lui esisteva solamente la necessità di trovare il giusto posto ad ogni prodotto mentale. E di questo i Quadernoni dei suoi alunni ne sono la quotidiana testimonianza. Un fare scuola raccogliendo il pensiero di ognuno, valorizzando qualsiasi fantasticheria, credendo nel valore di ogni contenuto che andava intrecciando con quello degli altri compagni al fine di arricchirlo e chiarirlo nel vissuto collettivo. Berto voleva che ogni affermazione si inte grasse con quelle degli altri componenti del gruppo. Nella metodologia della Ricerca scolastica da lui ideata, infatti, i punti di snodo erano i pensieri collettivi anticipati dall’affermazione “ Abbiamo capito che... ", frase che sintetizzava il vissuto emergente e riapriva all’analisi collettiva (Berto, 1997; Berto e Scalari, 1992, 2013a; Scalari, a cu ra di, 2012). E così i suoi bambini - grandi e piccoli - imparavano a ragionare, riflette re, rielaborare finché il puzzle della vita assumeva una forma umanamente vivibile, personalmente ammirabile, esteticamente piacevole.
Maestro nel fare da “levatrice”, come diceva Pagliarani, riusciva a far uscire da ogni individuo le parti meno dicibili. E quelle frasi, quegli aneddoti, quei sentimenti, nel tempo depositati nei suoi scritti, sono e rimangono quella miniera di intuizioni che alimentano il pensiero psicosocioanalitico.
Pagliarani nel 1992 gli scrive:
«Non mi poteva fare regalo più grande. Le lettere al bambino appena nato sono stupende; spiritose e serie documentano una saggezza che suona a condanna e a ridicolizzazione di tanta supponenza di certi adulti. Per me sono “tavole” a fondamento della puercultura».
Chi durante i convegni lo ricorda leggere ad alta voce le affermazioni dei suoi alun ni veniva colpito dal suo commuoversi mentre la sua voce, un po’ tremante nel trascorrere degli anni, dava spazio al dire dei piccoli, alla loro filosofia sulla vita, ai loro sentimenti. Qualche volta anche una lacrima si affacciava ai suoi occhi perché dentro ad ogni suo alunno c’era anche lui con la sua solitudine, la sua paura, la sua angoscia del rifiuto, il suo timore di non farcela, la sua speranza di essere amato. E l’approvazione di Pagliarani per il suo modo di lavorare lo confortò proprio perché dissipò la sua insicurezza su quanto, al di fuori del consueto, andava realizzando nei percorsi formativi con grandi e piccoli.
Aldo Aliprandi, educatore, filosofo, attore scrive:
«Io la fortuna di incontrarlo l’ho avuta, e non per poco tempo. Un incontro straordinario in un contesto unico, voi tutti, in un momento della mia vita estremamente importante che ha determinato i miei 20 anni successivi e oltre. Il ripensarlo mi ha riportato alla memoria sensazioni che dopo tanto tempo hanno bisogno di qualcosa per essere richiamate, e cosi ho rivisto il suo sguardo rassicurante che io cercavo quando agli inizi di quella avventura non capivo niente di cosa stavamo facendo. E quella rassicurazione non era la saggezza del “vecchio” che ne sa di più, ma la capacità di contaminare la curiosità e la passione nei confronti di qualcosa che non è stato ancora del tutto scritto. Come dire “è una nuova strada, proviamo a percorrerla, vediamo dove ci porta...”, per poi scoprire nel tempo che Lui quella strada l’aveva immaginata e in quel momento la stava percorrendo con noi, mettendosi sullo stesso piano, condividendo le stesse esperienze e forse talvolta gli stessi dubbi. E ancora, quando allora ventenne, ancora immerso nei miei studi speculativi, troppo giovane per poter sospendere a lungo il giudizio e forte di deboli convinzioni, mi infilavo in contestazioni metodologiche. Lui che avrebbe potuto nel suo doppio ruolo arginare la mia irruenza, lasciava che io esondassi sapendo che prima o poi avrei capito e ne avrei tirato fuori qualcosa di buono, ricomposto, utile. Io percepivo da parte sua una sorta di stima che mi incoraggiava e che mi avrebbe spinto a resistere e mi auguro trovare la via di quella ricerca che per Lui era una limpida necessità. E stato sicuramente quel maestro che tutti vorremmo aver avuto, che, travestito da compagno di classe, ha camminato con noi anni preziosi della nostra vita. Da lui ho im parato due cose fondamentali che ho poi cercato di trasmettere a tutti gli educatori con i quali ho lavorato e oggi lontano dal “sociale” con i giovani artisti della performance art: la curiosità e l’ascolto».
Francesco Berto mi diceva spesso quanto gli mancasse Gino e il confronto intellettuale con lui. Affermava: «È morto troppo presto e non abbiamo fatto in tempo a divulgare sufficientemente la nostra idea di scuola. Se ci fosse stato lui, con la sua esuberanza e irruenza, l’avrebbe fatta conoscere a tutti». Ed ora anche Berto si è spento. Ci ha lasciati infatti mercoledì 8 luglio del 2020. Adesso rimane la sua eredità da coltivare, curare, sviluppare affinché l’apprendimento sia sempre impregnato di quella mancanza che alimenta incessantemente il desiderio di conoscere di più.
Canciani aggiunge: «Il suo silenzio chiede la nostra parola. Non per commemorare. Per testimoniare quanto della sua lezione vive in noi. Ci sono libri, ma quel che più ci ha lasciato è quel calore che ti investiva nella relazione. Staremo vicini avvolti in un silenzio che parla e ci tiene».
Berto e Pagliarani sognano insieme una scuola diversa. Cercano una didattica rivo luzionaria per costruire cittadini capaci di rinnovare la polis. Immaginano un’aula dove si formino soggetti pensanti che siano in grado di generare nel mondo giustizia e liber tà. Il senso dell’equità in loro è infatti molto alto. Ne è una bellissima testimonianza la conversazione che Berto conduce con il magistrato Francesco Saverio Borrelli durante il convegno “Educare coscienze critiche”, promosso da edizioni la meridiana a Molfetta. Borrelli all’inizio resiste, non sono queste le interviste a cui è abituato. Gli vengono poste da Berto domande inconsuete. Berto allora gli legge le parole dei suoi alunni sul la libertà e sulla giustizia familiare. E, da uomo intelligente qual era, il magistrato di Mani Pulite si lascia andare e racconta di sé, di suo padre, di suo figlio, dei suoi mae stri. L’emozione circola allo stato puro. Qualcuno si commuove. Nella scena più intima che si può immaginare davanti a centinaia di persone Berto riesce ad entrare nel cuore di questo grande uomo della giustizia. Alla fine si abbracciano e si ringraziano. In privato a Francesco scenderà anche una lacrima per lo sforzo e per la potenza del pensiero umano che hanno condiviso. Borrelli gli resterà amico per sempre. Gli disse sottovoce: «Berto lei è un animo puro perché mai disponibile ad alcun compromesso con la sua coscienza».
Scrive Luca Rusi, educatore e psicologo: «Aveva il dono di uno sguardo speciale, capace di dare risalto e prospettiva. Grazie alla luce dell’intelligenza e della benevolenza. Un esempio e una lezione...».
L’intesa tra Berto e Pagliarani fu dunque anche sull’idea di polis. Risoluti nel voler esplorare la vita politica sognano insieme di cambiare le brutture del mondo. Disposti alla militanza attiva nella polis. Pagliarani fondando diverse associazioni, Berto ope rando in diverse istituzioni. Amavano dissertare per libere associazioni spaziando dalla musica all’arte, dalla letteratura alla saggistica, dal quotidiano al politico, dal passato al presente. Acrobati della mente sapevano sintonizzarsi immediatamente con qualsiasi conoscenza culturale li potesse aiutare ad esprimersi. Quello che mi colpiva mentre li ascoltavo era che si capivano là dove io non riuscivo a seguirli. Sentivo però che s’intonavano in una musica che era puro piacere di esplorare il mondo. Sotto al loro serrato discorrere c’era, a mio avviso, una profonda, forse inconscia, condivisione del modo di affrontare la sofferenza propria e dell’altro. Fu dunque intesa di visioni imme diata. Là dove la clinica è anche politica, l’educazione è innanzitutto testimonianza e la parola è trasformazione in azione.
Scrive Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore, già Assessore alle Politiche sociali, ora Presidente Municipalità Marghera:
«Ho avuto l’opportunità e il privilegio di collaborare con Francesco Berto quando seguivo le politiche sociali del Comune di Venezia, in quei primi anni ’90 in cui le abbia mo rivoluzionate e fortemente rafforzate [...] a cui Berto prestava una preziosa collaborazione/consulenza e una fattiva presenza, convinto com’era della centralità delle politi che e delle istituzioni pubbliche in campo sociale ed educativo (e dell’intrecciarsi fecondo di queste due dimensioni). C’erano nella sua visione del lavoro educativo l’esperienza ricchissima di chi ha operato nel campo, come maestro, spesso nei luoghi più disagiati, nei quartieri più difficili della città (compresa Ca’ Emiliani, luogo senza paragoni quanto ad asperità) insieme alla riflessione profonda su queste e altre esperienze, al colloquio costante con la ricerca teorica, all’impegno continuo a elaborare, verificare approcci, modelli, spingere più avanti la proposta educativa, il progetto, tenendo al centro la persona, in primis il bambino, pensato come capace di autonomia - di evoluzione, appunto. Da questa tensione teorica e culturale - comunque radicata nel lavoro sul campo - si è sviluppata una serie di pubblicazioni che ne esprimevano la ricerca e le riflessioni, in dialogo con la discussione contemporanea, in campo educativo e psico sociale. [...] È stato un grande educatore, appassionato e colto, Francesco Berto, e un formatore affidabile e lungimirante di decine e decine di operatori. La sua lezione, fruttuosa per l’amministrazione e per la città, attraverso più generazioni, resta preziosa e da interrogare».
Berto, negli anni novanta, per la condivisa idea di puer e polis chiederà di divenire socio dell’Associazione Ariele Psicosocioanalisi portando la testimonianza della sua produzione scientifica in alcuni incontri milanesi. Questo riconoscimento lo rinforza e infatti, da lì in poi, oserà mostrare con minor pudore e reticenza il suo far scuola senza banchi, con più intervalli, giocando a pallone, riempiendo pagine e pagine di riflessioni, al di là di sterili programmazioni. Un insegnare fuori dell’usuale da cui uscivano sog getti pensanti e per questo intellettualmente capaci di costruire saperi, competenze e conoscenze. Un far apprendere per educare alla vita così come testimonia la successiva produzione saggistica di Berto conclusasi con In classe con la testa, teorie e tecnica dell'apprendimento ingruppo (2016) che, oltre alla metodologia della ricerca gruppale, raccoglie la biografia di Berto attraverso una nostra chiacchierata “Sul far della sera” per dimostrare come s’intreccino storia personale e scoperta teorica.
La coordinazione del gruppo classe, da lui più volte riproposta nei suoi libri, è quindi analiticamente orientata. La consulenza educativa, da lui messa a punto metodo logicamente, è sempre osservazione condivisa del bambino narrato dal genitore e mai suggerimento pre-definito. La formazione, da lui praticata nei servizi socio-educativi, è immancabilmente un mettere ordine e arricchire gruppalmente le conoscenze e giam mai applicazione di sterili strumentazioni. Su tutto questo domina l’idea di gruppo ope rativo, cioè di gruppo al lavoro che produce idee elaborando, nel campo gruppale, un sentire che - disvelato - diventa sapere. Il gioco tra latente e manifesto diviene piacere di far sentire come passare da stati d’animo confusi a vissuti illuminati.
Scrive Nicoletta Livelli, past president Ariele Psicoterapia e Vicepresidente Coirag:
«Conobbi Francesco a Padova in occasione del percorso regionale con tutti gli operatori del territorio che, con ruoli e posizioni professionali diverse, si occupavano di genitorialità (confesso che allora questo uomo alto, elegantissimo, con portamento distinto da “signore” quale lui era, mi incuteva una certa soggezione) [...] Fece una relazione molto ap prezzata per la sua profondità e per la dissonanza dagli interventi precedenti. Questo suscitò un confronto serrato all’interno dei gruppi di lavoro che in quel momento del processo elaborativo stavano subendo una certa impasse. Imparai poi che, spesso, i suoi interventi avevano proprio questa funzione: riattivare il pensiero sollecitando il confronto».
Nei diversi ambiti dove Berto applica la sua concezione di apprendimento emerge pertanto la sua idea di insegnamento così come va sviluppandosi nel passare degli anni. Pioniere delle classi aperte, della scuola a tempo pieno, della valutazione attraverso l’autovalutazione, della relazione tra corpo insegnante e famiglia fa transitare dall’uno all’altro settore della formazione i principi dell’apprendere con l’altro, attraverso l’altro, insieme all’altro. L’alterità come separatezza che relaziona e che divide diventa il punto centrale della sua ricerca teorica sullo sviluppo dell’identità. L’idea che in questo millennio fosse venuta a mancare la capacità di tener conto che l’altro non può essere posseduto, ammaestrato, sottomesso, mosso come una marionetta lo vedeva temerario assertore della libertà di espressione. Spesso Berto dava particolare ascolto agli scolari più difficili perché meno convenzionali, meno addestrati, meno adattati. Erano per lui degli alunni essenziali al fine di sdoganare - a nome di tutti - l’indicibile, il divergente, il trasgressivo. Amava i bambini ribelli, quelli che mettono duramente alla pro va. Preferiva lavorare nelle periferie degradate. Delle terribili situazioni familiari dei suoi scolari ne parlava ancora dopo anni. Ricordava Johnny, il bambino che abitava nel caseggiato dei delinquenti professionali, orfano di madre, ragazzino di strada, figlio di nessuno. Ogni mattina lo andava a prendere a casa poiché, diversamente, nessuno lo avrebbe svegliato per andare a scuola. Parlava con orgoglio di Massimiliano, il bambino rifiutato da tutte le scuole della città perché impossibile da scolarizzare. Berto lo prese sotto la sua ala protettrice e, con grande forza ed estrema amorevolezza, lo piegò ad una relazione con lui. Quando il ragazzino cedette allora incominciò a insegnargli a leggere e a scrivere. Prima c’era stato il gioco del calcio, il braccio di ferro, la sfida alla fune, lo sguardo sempre agganciato, la mano ferma e amorevole per placcare, la parola per raccontare, il sorriso per perdonare. Piangeva per Maieoi, bambino oppositivo e iperattivo che riuscì a conquistare con la sua severità sempre amorevole. Maieoi, dive nutoadolescente, correndo contromano sul suo motorino, fu investito e mori. Gli indesiderati erano dunque i suoi scolari più cari perché vedeva le loro potenzialità dietro alla loro prepotenza, arroganza, provocazione. Li amava perché sentiva la loro paura. Li sapeva soli. Li sentiva abbandonati. E dell’angoscia della solitudine lui aveva una sua personale conoscenza. Aveva fatto esperienza, infatti, di cosa significasse essere incompresi, marginali, criticati, condannati, disconosciuti, ma aveva anche assaporato cosa si sentisse se si faceva esperienza invece dell’essere amati e valorizzati. Di questo sentirsi considerato era molto grato a Pagliarani.
Tiziano Battaglia, formatore e docente universitario scrive: «Se c’è un po’ di qualità nel mio insegnare, la devo a Francesco».
L’ultimo incontro con un Gino ormai malato, in un piovoso pomeriggio autunnale, fu a Vacallo. Lo raggiungiamo nella sua casa per un’intervista sulle paure dei bambini che compare in Paure, bambini spaventati (1997). Due ore biografiche per Gino e Francesco che si raccontano animatamente di una vita vissuta durante la guerra, dentro ad un sistema scolastico rigido, in famiglie prima molto agiate e poi in difficoltà eco nomica. Condividono la necessità di rompere gli schemi, di andare oltre. Io allora ascoltai rimanendo in disparte, affascinata da questi grandi uomini colti che avevano risolto con grande creatività il loro personale soffrire, patire, desiderare. Vite piene per ché capaci di utilizzare ogni esperienza.
Ora Francesco ci ha lasciati, ma il prodotto di questi incontri umani che arricchi scono l’esistenza rimane. E noi continueremo a coltivarlo.
Scrive Franca Olivetti Manoukian, psicosociologa: «Franco se n’è andato. Ti, ci ha lasciato, ma ci ha lasciato tanto in tutto quello che ha proposto e costruito con tutti quelli che ha incontrato, grazie anche a te».
Berto F. (1997). I bambini vanno a scuola. Roma: Armando.
Berto F. (2008). Memoria di un incontro, due puer si parlano. Educazione sentimentale, 11
Berto F. (2016). In classe con la testa, teorie e tecnica dell'apprendimento in gruppo. Molfetta: la meridiana.
Berto F., Scalari P. (1992). Parola di bambino, imparare a diventare grandi. Treviso: Pagus.
Berto F., Scalari P. (1997). Paure, bambini spaventati. Roma: Armando.
Berto F., Scalari P. (2008). Contatto. La consulenza educativa ai genitori. Molfetta: la meridiana.
Berto F., Scalari P. (2011). Mal d'amore. Molfetta: la meridiana.
Berto F., Scalari P. (2013a). Il codice psicosocioeducativo, prendersi cura della crescita emotiva. Molfetta: la meridiana.
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